lunedì 25 luglio 2011

I portieri del sogno

Tornato dal mare, vi voglio riportare un frammento di un libro che mi è stato regalato per il mio compleanno, ovvero "I portieri del sogno - Storie di numeri 1" di Darwin Pastorin (libro che per ora mi sta entusiasmando).

"DINO ZOFF E LA PARATA MUNDIAL

Il mondiale spagnolo del 1982, conquistato dall'Italia al termine di un'avventura prima kafkiana e poi salgariana, è stato raccontato centinaia di volte: quelle sette partite della nazionale sono state viste e riviste, analizzate, radiografate. E così anche chi non visse quell'impresa in diretta è in grado, oggi, di proclamare: "So tutto, e anche di più". Io c'ero. Proprio lì, in terra iberica, giovane inviato del quotidiano "Tuttosport". Una pulce tra tanti giganti della scrittura: Giocanni Aripino, Mario Soldati, Oreste del Buono, Gianni Brera. Furono giorni di nuvole d'ira, di cadute verticali, di offese, di un memorabile riscatto e, infine, di un canto di vittoria innalzato da milioni di italiani estasiati e increduli, tutti sotto la stessa bandiera, tutti vestiti di biancorossoverde. In quel luglio "del nostro contento" si scoprì tifoso della nazionale azzurra persino Mick Jagger, leader dei Rolling Stones, in concerto a Torino.

Ma quali sono stati i momenti più significavivi di quell'impresa?

Rivediamoli ancora una volta.

In primo luogo, la reazione orgogliosa dell'allenatore Enzo Bearzot, che citava a memoria i classici latini e i poeti turchi, e dei calciatori alle dure e spietate critiche della stampa dopo i tre pareggi con le nazionali di Polonia, Camerun e Perù, in verità assai scialbi, nel girone eliminatorio e alle accuse di dolce vita. Gli azzurri inventarono il silenzio-stampa e promisero di vendicarsi sul campo, recuperando Dumas: "Tutti per uno e uno per tutti". L'Italia, passato il turno con il fiatone e nel mezzo della burrasca mediatica, si ritrovò a Barcellona a fare i conti con l'Argentina del giovane diablito Diego Armando Maradona e con il favoritissimo Brasile, la squadra che per talenti, gioco e allegria racchiudeva tutte le meraviglie del possibile e dell'impossibile. Un quotidiano titolò: "A Barcellona cosa andiamo a fare?". E furono, ovviamente, altre liti, altri veleni. D'atra parte, schiacciata dallo strapotere tecnico di argentini e brasiliani, l'Italia, fino a quel punto pallida e assorta, pareva l'ideale agnello sacrificale.

Ma a Barcellona il romanzo di Spagna abbandonò le pagine scure per entrare nei capitoli del mito, dell'apoteosi. E fu l'atre a quel punto a imitale la vita. Gli azzurri superarono l'Argentina 2-1, i biancocelesti vennero sconfitti anche dal Brasile 3-1. Toccava all'ultimo atto, Italia-Brasile, allo stadio Sarrià, decidere la semifinalista. La Seleçao partiva con un vantaggio: si sarebbe qualificata anche con un pareggio, in virtù della migliore differenza reti. Ma i brasiliani cancellarono, sdegnosamente, questa ipotesi: "Noi vogliamo vincere, perchè questo è il nostro modo di essere, quindi di giocare".

In quel pomeriggio del 5 luglio 1982 tutto si consumò: dal rogo della Bellezza alla celebrazione della Determinazione. Caddero gli dèi brasigliani e il centravanti Paolo Rossi, ancora senza gol, il più criticato, il più umiliato, decise di uscire dalla tenda per diventare l'eroe delle ultime battaglie. Patroclo si trasforò in Achille. Sappiamo delle sue tre reti, che resero inutili le prodezze di Socrates e Falçao, sappiamo di una rete ingiustamente annullata a Giancarlo Antognoni, sappiamo del pianto dei verdeoro, di quegli atleti destinati a passare alla storia come la generazione degli sconfitti, sappiamo di essere diventati, per anni, tutti dei paolorossi, perchè così ci chiamavano all'estero riconoscendoci italiani. Ma il 3-2, la vittoria storica, l'inizio della leggenda, tutto questo non ci sarebbe stato senza la parata mundial di Dino Zoff, portiere e capitano della nazionale italiana, 41 anni, da molti dato sul viale del tramonto, più monumento che atleta, storia e non più cronaca. Ora quella parata viene posta in secondo piano dalle saette di Rossi e dal 3-1 in finale, al Santiago Bernabéu, contro la Germania Ovest (con l'urlo di Marco Tardelli, dopo la sua rete, la seconda per gli azzurri, diventano il manifesto di quella competizione). A distanza di anni, voglio ridare a Zoff quel che è di Zoff.

Accadde al '89. A un minuto dal termine. Brasile in attacco: scomposto, furibondo, affannoso, disperato. E come avrebbero sperato in un pari, gli assi verdeoro perduti: altro che estetica portata all'eccesso. Gli azzurri, quel pomeriggio, avevano dalla loro parte un fato amico, ma Eupalla, come Brera chiamava la dea che sovrintende alle cose calcistiche, aveva deciso di offrire ancora una possibilità ai brasiliani. Una sola, l'ultima.

'89. Sessanta secondi alla conclusione. I tifosi italiani non fiatavano, i tifosi avversari non fiatavano, increduli di fronte a quella imminente, rovinosa caduta: proprio noi, i migliori, i più granid, i più belli? Tacevano i tamburi, tacevano le trombe, non c'era più danza, in quell'ottantanovesimo minuto.

Un minuto, un solo minuto, fra il tutto e il niente.

Una punizione dalla sinistra, quasi all'altezza del vertice dell'area di rigore, a favore del Brasile. Alla battuta andò l'ala sinistra Eder. Un tipo particolare, dai molti gol e dalle molte donne. Su un braccio, brillava una cicatrice, ricordo della coltellata di un marito geloso. Eder possedeva un sinistro diabolico, carico di insidie e di effetti, potente. Si avvicinò al pallone nervoso. Aveva fretta, il tempo stava volando, rischiando di portarsi via i sogni, la coppa, le illusioni. L'area italiana era affollata come una spiaggia di Rimini, d'estate. Ansie, spinte, richiami, sudori, imprecazioni, preghiere, sospiri.

Entriamo dentro quell'89°. Eder sa che quello è il tiro decisivo: calciare in porta o buttare la palla nel mucchio? Eder vede arrivare dalle retrovie il difensore Oscar Bernardi. Alto, bello, biondo e di gentile aspetto, forte di testa. Oscar è di chiare origini italiane. Ecco, il colpo di scena. Un figlio di italiani a punire gli italiani. Una beffa cridele, all'ottantanovesimo minuto. Eder sorride. Eupalla si è allontanata solo per qualche attimo. Una semplice distrazione. Il cross dell'ala sinista con la cicatrice sul braccio è perfetto: una parabola che pare teleguidata sulla testa di Oscar Bernardi. Oscar è uno che di gol ne ha sempre segnati pochi: è il difensore centrale, di quelli che si devono occupare delle punte avanzate avversarie. E Paolo Rossi di dispiaceri glene ha già dati tre. Troppi per un brasiliano seppure di origini italiane. Osar vede arrivare quel pallone: ed è un fiore da raccogliere. Basta un gesto, un semplice gesto. In quell'area da bolgia infernale, lui si sente un angelo. La sua elevazione è, come dire, spirituale. L'impatto fronte-pallone è impeccabile. Nemmeno si sente il rumore. Una carezza. E quel pallone è destinato all'angolino basso, alla sinistra di Zoff. Come può arrivare quel portiere di 41 anni? l'89° segnerà anche il passo d'addio di quel campione. Oscar Bernardi osserva la sua conclusione che sta per gonfiare la rete e il cuore dei suoi connazionali. Tutti, in realtà, in quel preciso momento, stanno guardando quella conclusione e quel portiere di 41 anni: la gente davanti alla tv e la gente allo stadio, Bearzot dalla panchina, i poliziotti e i raccattapalle intorno al campo, i venditori di bibite e panini sugli spalti, persino le nuvole si sono fatte curiose. Le nuvole vanno e vengono, ma quella volta, per davvero, si fermano.

Zoff si tuffa sulla sua sinistra. Lui, che non amava tuffarsi. Oscar sta alzando le braccia al cielo, sicuro del gol. Ma le mani di Zoff (diventate, con la coppa in mano, un disegno di Guttuso) fermano il pallone. Sulla linea bianca. I brasiliani provano a urlare: "E' dentro, è dentro!".
Zoff si alza, fa segno di no con la testa. Il pallone tra le sue mani è un bambino che dorme, e sogna. Felice. L'Italia diventerà campione del mondo.