lunedì 28 novembre 2011

Giusto portare a 65 anni la pensione delle donne

L'aumento dell'età pensionabile delle donne, inserita in un contorto provvedimento che mira a salvare l'Italia dalle fiamme dei mercati, sembra a prima vista una misura affrettata e disperata. Ma è in realtà una misura dovuta da troppo tempo, che mira a correggere una vistosa smagliatura del sistema pensionistico.

L'aumento dell'età pensionabile, per donne e uomini, è una risposta ragionevole e leggittima ai problemi posti da quella che è essenzialmente una buona notizia: la vita umana si allunga. Quando il Cancelliere Bismarck introdusse le pensioni pubbliche in Germania nella seconda metà dell'Ottocento, l'età pensionabile era di 60 anni, pur se la vita media non superava i 50. Le pensioni, insomma, erano riservate a pochi e robusti vecchi. E la previdenza era, almeno all'inizio, un buon affare per gli Stati: i lavoratori contribuivano tutti, ma i benefici andavano a pochi.

Oggi, con la speranza di vita vicina agli 80 anni, un Bismarck redivivo stupirebbe nel costatare che i suoi nipotini nei governi hanno, almeno fino a pochi anni fa, lasciato l'età di pensionamento vicina al livello del suo tempo, pur in presenza di un cospicuo aumento della vita media.

Insomma, la soluzione di buon senso al nodo invecchiamento/pensioni è la seguente: se la gente vive più a lungo, allora che lavori più a lungo. Ma forse neanche questa conclusione è corretta. In un'ottica autenticamente liberale, l'età pensionabile non dovrebbe essere nè alta nè bassa. Dovrebbe semplicemente essere libera. Appartiene alla sfera privata dell'individuo decidere come dividere la sua vita fra lavoro e riposo.

Le pensioni d'anzianità italiane non sono da condannare perchè vi sia qualcosa di immorale nell'andare in pensione presto. Sono da condannare perchè danno a chi ne beneficia molto di più di quel che ha versavo. Per questo è stato creato il sistema contributivo: questo sistema fa sì che il lavoratore, quando va in pensione, abbia quel che ha versato. Se vuole andare in pensione presto avrà di meno, se vuol andare in pensione tardi avrà di più, secondo parametri noti. E se nel frattempo la vita media aumenta ancora, le condizioni di pensionamento ne terranno conto.

In tutto questo si inserisce un problema di genere, nel senso del genere femminile. Nel mondo ci sono molte regole, pratiche e istituzioni che discriminano le donne, e alcune contro-regole - per esempio le quote rosa - sono state introdotte per correggere queste discriminazioni. Ma in Italia c'era anche una discriminazione all'incontrario, cioè un ingiustificato trattamento di favore, a favore, appunto, delle donne: le condizioni di accesso alla pensione. In effetti, c'era un doppio trattamento di favore. Il primo stava nel fatto che le donne andavano in pensione prima degli uomini. Il secondo sta nel fatto che le donne in media vivono più a lungo degli uomini, e quindi ricevano un monte pensioni più alto: la loro vita residua è più elevata. Anche se andassero in pensione alla stessa età degli uomini, godrebbero della pensione più a lungo. E' praticamente impossibile, e probabilmente costituzionalmente indiffendibile, eliminare questo secondo trattamento di favore, ma il primo può essere corretto. Per le lavoratrici del settore pubblico questa correzione, sotto il pungolo di una condanna dell'Unione europea è stata fatta. Per le donne che lavorano nel settore privato le misure di Ferragosto stabiliscono una graduale equiparazione - a 65 anni, con aumenti dell'età pensionabile scaglionati, per un totale di 60 mesi, fino al 2028 - all'età pensionabile degli uomini. Aumenti che si sommeranno a quelli derivanti dall'indicizzazione dell'età prevedibile innalzamento della vita media.

Certamente le aspettative legittime o i diritti acquisiti di quante contavano di andare in pensione a una certa data saranno intaccati. Ma può essere consolante sapere che queste misure sono graduali (partiranno dal 2016) e vanno a togliere vantaggi non equi.