mercoledì 16 novembre 2011

La concorrenza dei Paesi low cost

Nella nostra capacità di lavoratori o imprenditori dobbiamo fare i conti con altri lavoratori e altri imprenditori: quelli dei Paesi low cost che ci fanno concorrenza più o meno leale. Che cosa fare? C'è chi vorrebbe tornare al protezionismo, eirgendo quote o dazi: una scelta che la storia ha dimostrato perdente, e che soffre di qualche eccezione solo quando una nazione è agli albori dello sviluppo e vuole favorire industrie nascenti. Tuttavia, non ci si può nemmeno limitare a registrare i danni e magari, se si vuole essere altruisti, congratularsi con lavoratori e imprenditori dei Paesi più poveri del nostro che stanno uscendo dalla povertà esattamente come facemmo noi in periodi lontani della nostra storia: lavorando e producendo e offrendo al resto del mondo merci e servizi con un rapporto vincente fra prezzo e qualità. Possiamo fare qualcosa di più: se quel che produciamo viene scalzato dalla concorrenza dobbiamo produrre qualcosa di diverso, innovare i modi di produrre e i prodotti stessi.
Quel che succede è già successo in passato, la storia economica del mondo è da sempre scandita da "passaggi del timone" fra Paesi emersi ed emergenti: la concorrenza è un processo di creazione e distruzione, ma la distruzione può essere creativa. Quando parliamo di concorrenza dei Paesi low cost parliamo di concorrenza di prezzo. Ma questa è solo una parte di quel che succede nell'arena dei mercati.
Ascoltiamo un grande economista, Joseph Schumpeter: "Appena la concorrenza sulla qualità e sui servizi al cliente viene ammessa nei sacri recinti della teoria, la variabile-prezzo scende dal suo piedistallo. Nella realtà del capitalismo, in quanto distinta dall'immagine che ne danno i libri di testo, non è la concorrenza sul prezzo che conta. La competitività è quella che viene dal nuovo prodotto, dalle nuove tecnologie, una competitività che determina un vantaggio decisivo di costo o di qualità, e che non opera al margine; minaccia non tanto i profitti o le quantità prodotte ma le fondamenta stesse, la vita stessa delle imprese. E' di tanto più efficace della concorrenza di prezzo un bombardamento è più efficace dello scasso di una porta."
Molti obietteranno che cambiar pelle, per imprese e lavoratori, è più facile a dirsi che a farsi, ma non ci sono alternative. Tanto più che la concorrenza dei Paesi low cost non è in gioco a somma perdente. Questi Paesi, che all'inizio ci fanno concorrenza su quei prodotti - per la persona e per la casa - che erano e sono uno dei nostri punti di forza, quando diventano più ricchi diventano anche mercati di sbocco per le nostre esportazioni. Esportazioni che in effetti stanno crescendo fortemente verso quelle aree. Se quindi saremo capaci di cambiare i nostri mix produttivi e di offrire beni di qualità più elevata, troveremo ad accoglierci mercati molto più vasti di prima.
Come lavoratori, allora, dobbiamo essere pronti a cambiar lavoro, perchè fare sempre la stessa cosa non è più possibile. Un tempo, nella vita lavorativa, c'era prima un periodo di studio, dopodichè si entrava nel mondo del lavoro dove si rimaneva fino alla pensione. Non è più così. Studio e lavoro ci accompagnano lungo tutta la vita attiva, perchè può essere necessario acquisire nuove professionalità e nuovi saperi. E lo Stato deve offrire i mezzi per una formazione continua, così da lubrificare il passaggio di risorse umane da settori in declino a settori in espansione.

martedì 15 novembre 2011

La cura pensioni chiede tempo

E' sulla questione delle pensioni che l'Italia esibisce uno dei tanti paradossi che segnano la nostra convivenza.

E' diventato quasi proverbiale lamentare il peso delle pensioni sulla nostra finanza pubblica. E a guardare i grandi numeri questa lamentela è certamente fondata. La spesa per le pensioni in rapporto al valore di quel che viene prodotto in Italia (Pil) è la più pesante in Europa. Ed è così da molto tempo. A prima vista, sembra quindi giusto, quando diventa inevitavile agire sulla spesa, colpire le pensioni. Ma come si concilia questo grosso peso della spesa pensionistica con l'esistenza di tante pensioni di importo esiguo? Si concilia perchè nel passato le pensioni sono state usate a scopo assistenziale, concedendo vitalizi anche a chi aveva lavorato poco a chi si trova in particolari condizioni: non a caso, sempre guardando ai confronti internazionali, la nostra spesa per pensioni è record, ma la spesa sociale complessiva è bassa: segno che quella parte della spesa sociale - assistenza, sanità ... - che non riguarda le pensioni è particolarmente modesta.

Ma veniamo al paradosso. Prorprio perchè la spesa per pensioni è un fardello pesante, già da vent'anni tutte le manovre di contenimento della spesa hanno cercato di stringere sulle pensioni. Certamente, non si può ridurre quelle già in essere. Si può agire al margine, riducendo privilegi e benefici per i pensionandi futuri. E questo è stato fatto, al limite dell'ingiustizia. Per esempio, l'Italia è l'unico Paese dove le pensioni non sono pienamente indicizzate ai prezzi. Negli altri Paesi, o sono indicizzate ai salari (come era in Italia prima della riforma Amato del 1992) o sono indicizzate al costo della vita. E la manovra recentemente approvata ha ulteriormente limitato questa indicizzazione. Inoltre, abbiamo innalzato l'età pensionabile; questa è una misura sacrosanta: se si vive più a lungo, si può anche lavorare più a lungo, altrimenti, con l'allungamento della vita si finisce col ricevere dalla pensione - che è un salario differito! - molto di più rispetto ai contributi che abbiamo versato. E abbiamo anche, correttamente, indicizzato l'età di pensionamento agli anni medi residui (speranza di vita). Riforme, queste, scaglionate fra il 1992 e il 2009, che sono un modello per il resto dell'Europa (come ha riconosciuto una recente analisi dell'Economist). Uno studio della Commissione europea conclude che, malgrado l'invecchiamento della popolazione, la spesa per pensioni in rapporto al Pil diminuirà in Italia, sia pure di poco, mentre aumenterà, per quasi 3 punti di Pil, negli altri Paesi dell'euro.

Il paradosso quindi sta nel fatto che per la spesa pensionistica siamo gli ultimi della classe se guardiamo alla situazione in essere, e i primi della classe se guardiamo al futuro. Naturalmente, la consolazione è magra, perchè vuol dire che chi andrà in pensione avrà trattamenti molto più ridotti rispetto a quelli goduti dai padri o dalle madri. Chi è già in pensione non potrà contare su un pieno adeguamento ai prezzi (questo rimane solo per le pensioni minime), e chi ancora ci deve andare ci andrà più tardi e riceverà di meno rispetto al passato (anche se godrà della pensione per un tempo più lungo, dato l'allungamento della vita). A tutti questi sacrifici si potrebbe ovviare se l'economia italiana riprendesse a crescere (sarebbe più facile risparmiare per una pensione integrativa). Ma questo è un altro problema.

lunedì 14 novembre 2011

Perchè le banche sono solide

"Perchè continuare ad assaltare le banche?" chiese un giorno un severo giudice americano a un pregiudicato che era stato catturato dopo l'ennesima tentata rapina. "Vostro onore" fu la risposta del pregiudicato "perchè lì ci stanno i soldi". La risposta non fa una grinza ma è d'uopo ricordare che i soldi che stanno in banca non sono della banca ma sono nostri. Letteralmente, i nostri soldi - a parte gli spiccioli che siamo abituati a tenere in portafoglio - stanno nelle banche, sia sotto forma di depositi che sotto forma di custodia di titoli, per non parlare di gioielli o vasellame d'argento, che alcuni tengono nelle cassette di sicurezza.

E' comprensibile quindi che in tempi di crisi il pensiero corra alle banche.

Non ci preoccupa la sorte dei banchieri, ci preoccupa piuttosto la sorte dei nostri soldi. Che cosa minaccia oggi le banche?

Ieri - era la fine del 2008, quando scoppiò la crisi finanziaria internazionale - le banche, non solo in Italia ma nella maggior parte del mondo, erano nell'occhio del ciclone. Perchè? Per due ragioni: molti istituti bancari avevano comprato a man bassa molti titoli ad alto rendimento, che si erano rilevati poi fragili e invendibili: le famose obbligazioni "sintetiche", che avevano dentro, variamente reimpacchettati e infiocchettati, quei mutui subprime concessi a destra e a manca senza preoccuparsi della solvibilità del debitore.

La seconda ragione sta nel fatto che molte banche avevano infranto la regola d'oro del buon banchiere: far combaciare le scadenze. Cioè a dire, se la tua provvista di fondi è solida e stabile, presta pure a breve o a lunga; ma se ti provvedi di fondi a breve, presta solo a breve, non a lunga. Altrimenti, se i mercati del danaro all'ingrosso (fondi monetari e altri) dove ti sei rifornito non ri rinnovano le linee di credito e tu hai prestato quei soldi a lungo termine, hai dei problemi.

Fortunatamente per l'Italia, le nostre banche non avevano in pancia grandi quantità di quelle obbligazioni traballanti e dotate di una certa saggezza contadina, avevano rispettato la regola d'oro di cui sopra.

Oggi i dubbi sullo stato di salute delle banche non vengono dalle ragioni di ieri: la lezione della Grande crisi finanziaria mondiale è stata imparata. I dubbi vengono piuttosto dal fatto che le banche hanno in pancia grandi quantità di titoli dei Paesi in bilico (Grecia, Irlanda, Portogallo) e, se quei titoli non vengono rimborsati, le banche soffrono grosse perdite.

Le banche italiane hanno una esposizione limitata verso quei Paesi, ma, naturalmente, hanno invece in pancia molti titoli di Stato italiani. Per questo, nel momento in cui i mercati esprimono dubbi sui nostri titoli e ne abbassano il valore, le banche soffrono, e noi soffriamo con loro. Tuttavia, per le ragioni dette ieri, quei dubbi non hanno ragione di essere. Le banche italiane sono solide, e le nostre finanze pubbliche, anche se un po' acciaccate, stanno in fondo meglio rispetto a quelle di tanti altri Paesi.

Mette conto a questo punto ricordare che la vera ricchezza di un Paese non sta tanto nell'oro detenuto dalle Banche centrali o nei titoli; la vera ricchezza sta nelle risorse naturali, nel capitale umano, nella voglia difare e di intraprendere, nella solidità delle istituzioni, nella coesione del tessuto sociale, nella capacità tecnologica, nella qualità del sistema educativo... Cerchiamo prima di tutto queste cose e, allora, come dice il Vangelo, "tutto il resto vi sarà dato".

domenica 13 novembre 2011

Niente panico da conti pubblici

Nei giorni bui dell'autunno 2008, fra la gente in coda al supermercato si sentivano voci angosciate "Devo ritirare i denari dalla banca?", "e dove li metto?", "devo vendere i bot?", "mi toglieranno più soldi dalla busta paga?".

Siamo tornati a quelle giornate convulse? Le risposta breve è "no". La crisi che ci troviamo a vivere è una crisi seria, ma non ha molto a che vedere con la Grande recessione che si dispiegò tre anni fa. Tuttavia, è importante prima di tutto capire la natura di questa crisi. Se non si capisce quello che succede ci arrocchiamo in difesa. Cosa facciamo quando entriamo in una stanza buia? Prima di tutto, ci fermiamo: non andiamo nè avanti nè indietro. Il comportamento è razionale: non possiamo inoltrarci nel buio, rischiamo di farci male. Ma quello che è razionale per ognuno di noi diventa pericoloso per noi come comunità: se tutti si fermano, rimandano le spese, non mettono mano al portafoglio, allora i soldi non circolano più, l'economia si ferma e torna la recessione.

Diventa allora necessario spiegare quello che è successo. Vediamo di rispondere a due domande.

Perchè l'Italia si trova nell'occhio del ciclone? Forse perchè i conti pubblici italiani vanno male? No, i conti pubblici non vanno affatto male, e bastano alcune cifre per rendersene conto. L'anno scorso l'Italia ha registrato un deficit pubblico pari al 4.5% del nostro prodotto nazionale (Pil), e quest'anno il deficit scenderà al 3,9% (i dati dei primi sei mesi confermano il miglioramento). In ambedue i casi si tratta di disavanzi minori rispetto all'Eurozona. E questa è la ragione per cui, malgrado il nostro debito pubblico (una triste eredità del passato) sia molto elevato, i mercati ci avevano lasciati in pace. Gli occhi erano puntati su altri Paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo) e l'Italia venica considerata, una volta ogni tanto, affidabile. Tutto è cambiato quando, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative, il Governo si è indebolito: i mercati hanno avuto paura che la mano ferma che aveva finora retto il timone delle nostre finanze pubbliche avrebbe cominciato a traballare, e il deficit non sarebbe più stato tenuto sotto controllo.

D'accordo, ma sono giustificati questi timori? I fatti finora ci dicono di no, questi timori non sono giustificati. Nei momenti difficili gli italiani sanno mettere da pare le ostilità, e maggioranza e opposizione si sono messe d'accordo per far passare una manovra di correzione dei conti. Si può criticare questa manovra, ma in ogni caso si tratta di una stretta che mantiene il bilancio pubblico in zona sicurezza. E non è solo a livello parlamentare che si nota una maggiore unità di intenti. Anche a livello dei corpi intermedi - Sindacati e datori di lavoro - vi è stato uno storico accordo sui contratti e, su questo cruciale articolo della pace sociale, si è sotterrata l'ascia di guerra.

Ciò detto, la crisi non è finita. Molti ostacoli devono ancora esser superati e molte leggittime preoccupazioni ancora turbano i cittadini.