giovedì 9 settembre 2010

La magia delle azioni minime

Come anticipato ieri, vi riporto un altro brano di Raffaele Morelli dal libro "Le piccole cose che cambiano la vita"... in questo pezzo si sottolinea come i pensieri sono la causa dei nostri disagi e delle nostre preoccupazioni.

" Perchè i dolori durano? Perchè siamo pieni di intenzioni, pieni di intenzioni...

I chassidim ebraici insegnano che quanto più le nostre intenzioni diventano forti, tanto più la nostra anima rischia di ammalarsi: "Come si ammala l'anima? Quando pensiamo, parliamo e agiamo, intenzionalmente, in modo contrario all'inclinazione naturale di un'anima sana, noi ne provochiamo il deperimento".

Ti sei mai chiesto come mai tutto è possibile per i bambini? Vuoi che sia così anche per te? Osserva un bambino quando gioca. Lui è lì nelle cose che fa, è lì, non ha un progetto, non ha intenzioni, non si domanda "Sarò un buon bambino? Starò giocando bene?", non si sta chiedendo "E' il gioco giusto da fare oggi?".

Sei tu, adulto, che cerchi di mettergli in testa queste cose. Lui è presente all'azione e basta. E tu devi fare lo stesso.

Il bambino è in un altro stato della mente, e noi adulti dobbiamo imparare da lui come si fa.

Plotino riflette sulla relazione che esiste tra l'essere presenti a se stessi e la felicità dell'anima: "La felicità è uno stato che esiste tutto nel presente (...) Il ricordo della felicità non importa affatto, essa non consiste in un discorso che si sviluppa, ma in uno stato. Ora, lo stato esiste nel presente ed anche è l'atto della vita".

Quindi io devo essere lì, non devo risolvere i problemi, io devo essere lì, lì!

Un tempo le donne ricamavano. E mentre ricamavano parlavano, si raccontavano tutto, s'incantavano. Solo con "il ricamo" ti incanti: fai lo stesso gesto, non lo modifichi per ore e ora, fino a che - raccontano molte donne - senza rendersene conto raggiungevano l'orgasmo.

Quindi l'orgasmo non nasceva per via genitale, ma da un atteggiamento mentale.

Un altro esempio interessante viene osservando una donna dopo la fecondazione. Durante le prime settimane, non si accorge neppure di essere incinta, se ne accorge solo nel tempo, da alcuni segnali: il seno gonfio, le mestruazioni che non vengono... Si tratta di segnali "indiretti", non c'è una voce interna che annuncia "sei gravida". Non c'è! E in più, per tutta la gravidanza, la donna di questo grande evento spesso quasi non se ne accorge. Segno, quindi, che un grande evento così possiamo solo accompagnarlo. Essere presenti e accompagnarlo.

Non dobbiamo fare nulla o, al massimo, possiamo "covare" noi stessi, sì, come fanno i volatili. Essere presenti e consapevoli.

Il cervello ha bisogno di presenza, il cervello ha bisogno della nostra presenza. Quando ci diciamo "i dolori non mi passano", è perchè non siamo presenti; altrimenti passerebbero subito.

Invece, incominciamo a ripeterci: "Come? Una donna come me è stata lasciata dal marito? Impossibile!...". E ci lamentiamo, inveiamo, ci disperiamo. E siccome la parola "feconda" il cervello, noi fissiamo queste parole, e nel tempo creiamo e ci portiamo in giro una persona che non esiste. L'abbiamo creata noi, ma non esiste, non c'è mai stata!

C'è un'unica cosa da fare: tre-quattro volte al giorno bisogna essere presenti alle "azioni minime".

Se sei presente nelle azioni minime, si sprigiona una luce sconosciuta.

Il bambino pensa che la magia dipenda dal fatto che una luce sconosciuta è capace di produrre fatti prodigiosi.

Quante volte ci è accaduto che ci chiamasse proprio chi cercavamo, o incontrassimo ciò di cui avevamo bisogno. Se fossimo stati attenti ci saremmo chiesti come era potuto avvenire, e ci saremmo accorti che, in quei frangenti, avevamo la mente vuota. Così hanno detto i Saggi.

Dobbiamo toglierci dalla testa l'idea che le cose si realizzano con sforzo e fatica; la fatica misura solo la nostra resistenza. La fatica non produce niente...

Il cervello ha bisogno che tu osservi il disagio, poi, automaticamente, lo corregge lui.

Quindi, bisogna che io sia presente e che non pensi. Ed è così che nell'azione minima arriva la pace, perchè sei "seduto sull'eternità". Perchè non disturbi con il pensiero ciò che naturalmente sarebbe così.

Quando arriva un dolore, qualsiasi dolore, io devo solamente "illuminarlo" con il mio sguardo. Se ho paura che il dolore mi annienti è perchè non lo sto guardando, perchè insisto a dare spiegazioni, a giudicare, a commentare. Queste sono le cose da non fare.

"Lui mi abbandona, è un disgraziato, se non torna da me morirò..." No, così non ce la puoi fare! Io sto male, questo è il mio dolore, io lo osservo, non che cosa lo causa. E non penso a nulla... I miei pensieri sono solo un nemico da allontanare!

In genere come si pensa di ritrovare se stessi?

Attraverso i propri pensieri.

Li ripassiamo di continuo: quanti soldi ho in banca, la casa da sistemare, le mie abitudini, i miei ragionamenti, le teorie in cui mi riconosco... In sintesi, io mi convinco di essere quello che sono stato in passato. Ma come farò a cambiare se il mio passato è sempre con me?

Se noi fossimo solo i nostri pensieri non ce la potremmo fare! Nessuno ce la può fare.

Dobbiamo aver sempre presente che eravamo una cellula fecondata, uno spermatozoo o un ovulo. Questo siamo: uno spermatozoo che è entrato in un ovulo, oggi come allora.

Non è cambiato niente, niente. Dobbiamo ricordarci che quella cellula fecondata ha fatto operazioni di una complessità sconvolgente. Quindi, non è da un pensiero che siamo stati creati, e non è stato con i pensieri che si è formata la nostra vita.

Quindi, io non sono i miei pensieri.

I miei pensieri mi danno l'illusione di esistere nei ricordi del passato, di esistere nei progetti per il futuro. Ma quelli non siamo noi, non siamo noi!

Quindi la partita, la vera partita della vita è sapere che noi non siamo i nostri pensieri. Anzi, il pensiero è un vero, grande inganno!

Nietzsche, per spiegare i limiti del pensiero e della razionalità, ci propone come metafora un'antichissima favola romantica: "Noi nani inteligenti, con la nostra volontà e con i nostri fini, veniamo molestati da stupidi, arcistupidi giganti, i casi, gettati a terra dalla loro corsa, spesso calpestati a morte, ma nonostante tutto ciò, non vorremmo rimanere senza la terribile poesia di questa vicinanza, poichè questi mostri giungono spesso quando la vita nella tela di ragno dei fini è diventata troppo noiosa o troppo angustiosa e ci offrono un sublime diversivo per il fatto che la loro mano lacera l'intera ragnatela"."

mercoledì 8 settembre 2010

Il tempo si incupisce

Con i ritorno al lavoro si va verso l'autunno, la stagione che porta di solito con se molte tristezze: fine dell'estate, del divertimento, delle compagnie e uscite serali....

Un duro colpo il ritorno alla realtà, anche se, come diceva anche Beppe Grillo, non si può esser sempre felici, altrimenti saremo cretini e deficienti... è la vita che ci porta a oscillare d'umore.

Dopo il casinoso venerdì passato, ho avuto una brutta notizia (per me) nel campo "amoroso" che mi chiude l'ennesima porta che stavo per aprire, che inesorabilmente si richiude quando sta partendo la stoccata vincente (tra l'altro più passa il tempo e più il destino par prendersi gioco di me).

Non mi addentro nei particolari... vi posso solo dire che sono un po' spiazzato da questo cambiamento repentino che è tipico quando si passa da uno stato di spensieratezza totale al più incasinoso mondo dei pensieri.

Una cosa ho però imparato quest'estate leggendo "Le piccole cose che cambiano la vita" di Raffaele Morelli: per stare bene bisogna non pensare e non decidere niente, ma solo osservare cosa sta accadendo in quel momento.

Vi riporto un brano tratto da questo libro, dal capitolo "Diventa puro sguardo".

"Io da tempo ho perso l'abitudine di prendere decisioni. E delle volte mi dico: "Raffaele, mancano due minuti". E mi rispondo "non decidere". Io non decido mai.

Anzi, quando mi viene da decidere, osservo, semplicemente osservo. A volte, qualcosa di più forte di me, di atavico, mi porta a prendere decisioni, ma io cerco sempre di non decidere. Perchè ragiono così: se qualcosa mi ha creato senza il mio parere, allora io lascio fare a quel qualcosa.

Io devo osservare il problema e basta.

Cosa non va bene nel rapporto con mia mamma? Osservo, finito. Non ci devo pensare più. Basta!

E con gli stati d'animo faccio la stessa cosa: li osservo quando arrivano.

Io li voglio guardare, e se sono tremendi li guardo ancora di più. Mi viene un brutto pensiero, io lo voglio guardare! Io voglio guardare ciò che abita dentro di me, adesso! Questa è la partita, perchè se io lo guardo lui si dissolverà!

Devo affidarmi solo allo sguardo, e lasciar perdere il pensiero, anche se spesso rappresenta ciò a cui siamo più attaccati. Il pensiero ci fa commettere un errore fondamentale. Ci dà l'idea di permanenza. Ma ciò che è accaduto un minuto fa, non c'è già più.

Sei tu che lo fai durare con il pensiero, ma non ci sarebbe più e non tornerebbe più... Se noi non lo richiamassimo in campo con il ricordo, si trasformerebbe in energia, e ci preparerebbe alla prossima mossa; come una partita a scacchi. E questa mossa prepara quella che verrà. Ma il pensiero ferma questo processo naturale. Il pensiero ti consegna un'idea di permanenza.

Perchè in tutte le tradizioni i Maestri cambiano nome agli adepti? E' come se dicessero: "guarda che tu con quel nome richiami automaticamente in campo la tua storia. Tu non sei il tuo nome, ricordalo bene. Non sei il tuo nome".

Per comprendere come siamo, dobbiamo immaginarci come un cubetto di ghiaccio che si scioglie; l'emblema dell'impermanenza. Perchè, se seguiamo la testa, passiamo il tempo a ripetere: "guarda com'è il mio cubetto, il mio è più quadrato del tuo, più freddo, più alto, ha più acqua, ha meno acqua...". E non ci rendiamo conto che l'"evento" è l'acqua e non il cubeto.

Che l'acqua si scioglie e torna all'acqua. E che il cubetto non è nient'altro che una "forma" dell'acqua. Il cubetto deve fare l'acqua...

Questa è tutta la partita."

Domani vi riporterò un altro pezzo di questo capitolo, che farà capire ancor di più che sono i pensieri che ci fanno sentir male la maggior parte delle volte... oggi ho riportato questo trafiletto perchè mi piaceva l'esempio del cubetto di ghiaccio.

domenica 5 settembre 2010

Che tipo è chi sta al volante? Basta un'occhiata al baule

Il cucciolo di leone sotto anestesia, scambiato dagli agenti per un peluche, mi offre l'occasione di gettare un occhio nei bagagliai delle nostre macchine. Dimmi cosa c'è nel tuo baule e ti dirò... eccetera. Ma la prima osservazione è che non esiste il baule, non esisterebbe il cinquanta per cento dei thriller tv che ci sciroppiamo ogni sera, con relativo occultamento di cadaveri di mariti, mogli e amanti (così come non esisterebbe l'altro cinquanta per cento se nei cottages americani le finestre del primo piano non fossero a ghigliottina: si alza il vetro inferiore e si scavalca agevolmente mentre la vittima dorme. La logica vorrebbe che dopo la visione di un centinaio di questi gialli, si affermasse in America una fiorente industria di inferriate nonchè di tapparelle per nascondere gli amplessi, regolarmente spiati dai maniaci sessuali attraverso lievissime tendine. E forse qualche imprenditore ci ha provato pure ma è stato indimidito dalla più potente industria cinematografica che, come dicevo, temeva la crisi dell'intero filone poliziesco).

Torniamo al baule nei suoi aspetti più rilassanti, senza cadaveri. Baule come impronta digitale di ognuno di noi. Sappiamo che rovistando nel sacco dei rifiuti gettato nel cassonetto si potrebbero ricostruire il tenore di vita e le abitudini alimentari di ogni famiglia. Qualcosa di simile accade per il baule. Per esempio vi albergano oggetti che scandiscono l'alternarsi delle stagioni: le catene da neve che ci si ricorda di togliere solo quando si parte per il mare, o le pinne e il boccaglio che si rimuovono soltanto quando si parte per la settimana bianca. Sfida invece tutte le stagioni l'ombrello comprato per 5 euro in spiaggia sotto il sole di ferragosto da un vucumprà mezzo pazzo e mezzo genio.

Spesso si trova lì dentro anche la prova di una nostra sciocca abitudine. I fiori si dovrebbero guardare e fotografare là dove li ha seminati madre natura. Non si dovrebbero cogliere per metterli nel baule e lasciarveli marcire. Nei più civili paesi del nord chi strappa fiori si becca la multa che lo metterà in regola per sempre. Naturalmente nei bauli albergano non solo oggetti di reato. Le scarpe di pronto impiego, per esempio. Quelle da trekking, da calcetto, da infradito per piscina. E le calzature a punta con ipertacco che le donne in carriera calzano rapidamente quando parcheggiano e si sfilano le ballerine da frizione e accelleratore. Molto diffusa anche la scatola di scarpe piena di cd intergenerazionali, dal nonno al nipote.

Un tempo vivevano nel baule anche le racchette Maxima tenute in forma nel trapezio di legno sigillato con le grossi viti a farfalla. Adesso ci sono le racchette in carbonio, tugsteno, o vattelapesca che non si svergolano neanche sotto un trattore a cigoli. Qualcuno ci tiene anche la sacca con le mazze da golf. I golfisti sono persone deliziose quando le tratti singolarmente, ma se te li ritrovi a tavola non di rado ti emarginano brutalmente perchè parlano fra loro di handicap, ferro 3 e buca par 4 (questo per lo meno in Italia. In America sono andato felicemente a pranzo con golfisti che conversavano anche di cinema, Iraq, effetto serra).

In netto declino l'attrezzatura da picnic, tovaglie, stoviglie, thermos, polpettone e torta margherita. Oggi si va in cerca di agriturismi che ti servono il "vino della casa" dopo averlo travasato in caraffa dai cartoni del supermarket. Raro e inteligente il secchio di tenerla impermeabile per rifornimenti volanti (fino agli anni 60, immancabile il fiasco per cercar acqua dal contadino e rabboccare i radiatori fumanti, ancora inadeguati al respiro autostradale). Dimenticati in un angolo i corsetti arancione e fosforo che non si indossano mai quando si scende di notte. Spesso latitante un attrezzo obbligatorio: il triangolo catarinfrangente. Il perchè è semplice: l'abbiamo collocato alla distanza regolamentare dal nostro veicolo in panne e l'abbiamo lasciato là quando l'elettrauto ci ha fatto ripartire.

Non è raro che un baule puzzi di cagnuss perchè ci si tiene il plaid tutto impelluccato e sbavato, da stendere sul divanetto posteriore quando si porta in gita anche lui, labrador e chihuahua che sia. Nel bagagliaio spesso finiscono poi tutte quelle carte e documenti che si impilano sui sedili posteriori e che si sgombrano frettolosamente, destinazione baule, quando si fanno salire degli ospiti. Si ritrovano soltanto quando si cambia macchina e nel repulisti generale si scoprono mazzi di chiavi cercati per anni, rogiti notarili, documenti indispensabili alla nostra sopravvivenza, una vecchia edizione di Joseph Roth scovata in una bancarella, affettuosi portafortuna scomparsi di cui si è andati inutilmente alla caccia infilando le mani nelle fessure delle poltrone. Morale: mai sistemare "momentaneamente" una cosa importante nel baule. Non posso chiudere questa panoramica sui nostri bagagli senza un reverente omaggio ai bauli verdi borchiati in ottone, anni trenta, che venivano sostenuti da camerieri in giacca di rigatino e agganciati con grosse fibbie di cuoio sul retro delle Isotta Fraschini e delle Buick dalle gomme bianche. Costudivano i frak, le cappelliere, le vesti corte da fox trop, le parures d'oro e di platino, insomma le follie del Grande Gatsby.